Rencontre/ discussion avec des camarades de Blaumachen

Premier jour :

Discussion sur la conjoncture actuelle en Grèce en présence de camarades grecs du groupe Blaumachen

Pour nous il s’agit de faire partager en France un point de vue grec sur la situation de crise, tant au niveau théorique que pratique.

La discussion sera suivie d’un repas.

Le vendredi 18 mai, à 18h au 43 rue de Stalingrad Montreuil sous Bois, métro croix de chavaux.

Ci dessous le site de Blaumachen : http://www.blaumachen.gr/category/e…

Deuxième jour :

Discussion autour de deux textes du groupe Blaumachen en présence de membres du groupe.

« La phase de transition de la crise : l’ère des émeutes »

http://www.blaumachen.gr/2011/08/la…

et « l’émergence du non-sujet »

http://www.blaumachen.gr/2012/03/lemergence-du-non-sujet/

Les Camarades feront d’abord une présentation de leurs textes, puis ils s’agira de comprendre leur analyse et d’en discuter.

Rendez vous le samedi 19 mai, à 14h30 au 43 rue de Stalingrad à Montreuil sous Bois, métro Croix de Chavaux.

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Merde in France

Oggi la Francia non è colpita dalla crisi quanto altri paesi europei quali la Grecia, l’Italia, la Spagna, l’Irlanda o il Portogallo. Questo non significa che non potrà esserlo in futuro. Per ora le misure d’austerità non hanno dimezzato i salari e i tagli non impediscono allo Stato di conservare qualche ammortizzatore sociale come l’ assicurazione sanitaria, gli assegni familiari, il sussidio di disoccupazione, il reddito minimo e gli aiuti per la casa.

È possibile avanzare diverse ipotesi sul perché la crisi non colpisce ancora in pieno la Francia. In primo luogo ricordiamo che essa è tra le dieci maggiori potenze economiche del mondo, che è uno dei paesi fondatori dell’Unione europea e della zona Euro e che ha notevolmente beneficiato del Mercato Europeo Comune. Ma è stata anche un impero coloniale, la cui eredità genera ancora oggi profitto. Fondamentalmente, ha una posizione privilegiata nello scacchiere economico mondiale.

La Francia ha approfittato del periodo di crescita generale tra il 1945 e il 1973. L’ industria ha prosperato durante i cosiddetti “trenta gloriosi” grazie ad un proletariato caratterizzato da una forte produttività, qualificato e mantenuto in buona salute da uno Stato sociale forte, con un tenore di vita in costante aumento. A questo dobbiamo aggiungere che dopo la seconda guerra mondiale sono state istituite alcune grandi imprese pubbliche (come l’Agence France Presse) e altre imprese sono  state nazionalizzate (come la Renault) e sono andate a sommarsi alle nazionalizzazioni del 1936, formando così un pool di aziende pubbliche redditizie. Il cosiddetto compromesso fordista[1], aumentare i salari in cambio di una migliore produttività per aumentare il consumo (o l’arte di dare di più per ricevere ancora di più), ha funzionato molto bene in Francia grazie a contratti collettivi, frutto di accordi firmati congiuntamente dalle organizzazioni sindacali e padronali. All’interno di questi negoziati, i sindacati hanno svolto sostanzialmente un ruolo di collaborazione con il padronato, un ruolo di cogestione della forza-lavoro e di inquadramento delle lotte. Accanto ad un importante sistema di welfare state, lo Stato francese, centralizzato fin dal XVI secolo, è caratterizzato da un’amministrazione forte e ben radicata in tutto il paese e da una polizia efficace con a disposizione un savoir-faire e delle attrezzature d’avanguardia.

Eppure la Francia non è il villaggio di Asterix. Essa non è sfuggita né alla crisi generale del capitale né ai processi di ristrutturazione che quest’ultima ha determinato fin dagli anni settanta. Alcune imprese vengono delocalizzate, altre stanno diminuendo i loro effettivi o chiudono i battenti; a fine 2011 il 9,5% della popolazione dichiarata attiva è disoccupata, il costo della vita aumenta molto più velocemente dei salari e dei sussidi e i redditi indiretti provenienti dal welfare state si riducono gradualmente, mettendo a repentaglio il compromesso fordista. Alcune aziende pubbliche vengono privatizzate e i servizi pubblici sono sempre più gestiti come centri di profitto. Di conseguenza, dagli anni ottanta, le lotte si fanno sempre più difensive: non ci si batte più soltanto per un aumento del salario, ma per salvaguardare il proprio posto di lavoro, il proprio tenore di vita, per ottenere delle migliori condizioni di licenziamento. Ma il proletariato lotta a diversi livelli, sia attraverso rivendicazioni difensive, sia senza  alcuna rivendicazione, scontrandosi direttamente con la polizia e le infrastrutture dello Stato, saccheggiando e distruggendo le merci che non può permettersi. Accanto a questi conflitti sui luoghi di lavoro si diffondono progressivamente le rivolte urbane, come le sommosse dette «di banlieue[2]» del 2005. Esplose un po’ in tutto il paese, esse si sono concretizzate in scontri quotidiani con la polizia, attacchi ai negozi, saccheggi ed incendi di edifici pubblici.

Tra le lotte di carattere difensivo, le più emblematiche sono quelle che precedono le chiusure degli stabilimenti; ad esempio, nel 2000, quella dei lavoratori della Cellatex. Questi ultimi in seguito al loro licenziamento, per ottenere una liquidazione speciale di oltre 22.000 euro e delle garanzie particolari di riconversione, hanno minacciato di far saltare in aria la fabbrica e di versare migliaia di litri d’acido solforico nel vicino fiume. Questo tipo di pratiche, utilizzate per far pressione, si diffonderanno in numerose altre aziende in liquidazione nel corso del decennio successivo. Esse potranno sembrarci spettacolari, ma oltre ad essere legate alla violenza degli attacchi dei capitalisti, sono anche in linea con il sindacalismo conflittuale e le pratiche di azione diretta [3]. Benché esperti nel gestire le lotte per portare avanti i propri obiettivi, i sindacati a volte non sono riusciti ad evitare i sequestri di dirigenti, le occupazioni violente e i diversi danni causati alle merci e alle macchine da una base « scatenata ». Questo genere di azioni ha proliferato negli ultimi anni in seguito alla chiusura di numerosi luoghi di lavoro e ha fatto sorgere molteplici conflitti fra i sindacati e le rispettive basi.

Il costante aumento dei profitti è il motore del modo di produzione capitalistico.
Per ottenerlo in una situazione di crisi è necessario ridurre ulteriormente il costo globale del lavoro (aumento della produttività, creazione di zone franche, riduzione delle imposte e delle spese per gli ammortizzatori sociali…) e per questo bisogna rendere il lavoro sempre più flessibile e precario (orari e durata dei contratti a discrezione dei padroni, lavoro ad interim o in subappalto, esternalizzazione forzata dei lavoratori costretti a mettersi in proprio…). Come risultato di tutto questo i governi che si susseguono hanno il compito di riformare il contratto di lavoro e di ridurre le spese connesse alla riproduzione della forza-lavoro (sanità, istruzione, pensioni e sussidi vari).

Per quel che riguarda il contratto di lavoro, una delle riforme più significative è quella delle pensioni. È questa riforma che, già proposta nel 1993, ha portato al movimento di lotta dell’autunno 2010. Contro di essa i sindacati hanno organizzato, a cominciare da fine marzo, sette giornate di azioni e di manifestazioni. Successivamente, nel mese di ottobre, è iniziata una serie di manifestazioni e di scioperi ad oltranza durata fino a fine novembre (SNCF[4], camionisti, raffinerie, netturbini e dipendenti comunali, mense scolastiche, studenti medi e universitari, asili nido e autobus a Marsiglia…). La contestazione della riforma risulterà un totale fallimento e la sua applicazione procederà in maniera inarrestabile. Per la prima volta, dopo che i precedenti progetti di riforma del contratto di lavoro erano stati modificati o cancellati sotto la pressione dei movimenti (come il Plan Juppé[5] nel 1995 o il Contrat Première Embauche[6] nel 2006), lo Stato francese non ha fatto nessuna concessione, dimostrando di non voler più prendere in conto alcuna rivendicazione. Fallito negli obiettivi “politici” su cui puntavano i sindacati (i quali, ancora una volta, sono riusciti a ridurre la lotta a quattordici giorni d’azione e di manifestazione sparpagliati in otto mesi!), questo movimento ha più in generale evidenziato la debolezza delle lotte rispetto ad un attacco rafforzato dalla crisi ed un rapporto di forza in netto favore del capitale.

Tuttavia questo movimento ha anche permesso lo sviluppo di pratiche di lotta che superano la semplice opposizione alla riforma del sistema pensionistico, legate ad atti di resistenza basati sul valore globale della forza-lavoro, che comprende tutti i costi necessari non soltanto per pagare i lavoratori ma anche per permettere loro di rimanere produttivi, sopravvivere ed avere una casa. Ha così di fatto coinvolto il proletariato in senso più ampio, al di là della sola classe operaia e delle categorie d’età e d’attività direttamente colpite.

Crescono le difficoltà a scioperare e soprattutto ad occupare i luoghi di lavoro. Sia perché aumenta il rischio di perdere il salario ed addirittura il posto, sia perché si teme di mettere in pericolo l’azienda di cui si è dipendenti. Ma anche perché esistono restrizioni sul diritto allo sciopero per alcuni settori e la frammentazione della forza lavoro, attraverso l’esistenza di statuti diversi all’interno della stessa azienda, frena la formazione di collettivi di lotta. Inoltre per una fascia significativa del proletariato, come i disoccupati, i lavoratori temporanei, i precari, gli “assistiti sociali”[7], i lavoratori in nero, gli immigrati… è impossibile scioperare. Tutto ciò ha favorito lo sviluppo di:

– blocchi all’esterno dei luoghi di lavoro. Le raffinerie e gli inceneritori sono stati “bloccati” all’ingresso ma senza quasi mai essere stati fermati del tutto anche perché i sindacati hanno cercato di evitarlo in ogni modo col pretesto che per far ripartire i siti sarebbero stati necessari lunghi riavvii. I lavoratori di altri settori del pubblico si sono riuniti per bloccare un inceneritore di cui il personale non era in sciopero e hanno chiamano ad unirsi a loro gruppi o individui esterni. Questo ha permesso di separare o di associare liberamente sciopero e blocco e ha aperto i luoghi di lavoro e i collettivi di lotta. I sindacati stessi, per meglio vigilare, si sono trovati costretti ad “invitare” la gente a venire![8].

– «assemblee inter-professionali», istanze anti e/o para-sindacali che hanno integrato lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati, disoccupati, precari, pensionati, studenti, titolari di assegni sociali ecc… e che hanno tentato di creare dei coordinamenti diretti e generali, non più basati sulla professione, la categoria, il settore o l’azienda. Sfortunatamente a queste assemblee hanno spesso partecipato militanti della sinistra radicale, dandovi un impronta partitica e avanguardista.

A questo si aggiunge:

– il fatto che questo movimento è entrato in sinergia con una serie di conflitti anteriori e/o paralleli che miravano a delle rivendicazioni salariali e contrattuali, in particolare nelle raffinerie e in diverse aziende pubbliche o para-pubbliche (gli ospedali parigini, il museo del Louvre, gli archivi nazionali, i netturbini, i portuali di Marsiglia…)

– la forte mobilitazione degli studenti medi. Benché non ancora integrati al mondo del lavoro essi hanno reagito in quanto futuri sfruttati e se necessario con la violenza (si vedano i saccheggi nel centro di Lione e al tribunale commerciale di Nanterre).

E’ in questo contesto che è nato lo slogan Bloquons l’économie[9]. Anche se non è né «rivoluzionario» (visto che non si tratta di «distruggere l’economia») né efficace  (il men che si possa dire è che l’economia francese sia stata totalmente bloccata!), tale slogan ha il pregio di uscire dalla sfera delle rivendicazioni parziali per attaccare direttamente l’economia.

Sul fronte del costo di riproduzione della forza-lavoro, le riforme si concentrano sulla riduzione delle spese sanitarie e per l’istruzione e, più in generale, sulla ricerca di profitto nei servizi pubblici, sull’aumento dei contributi previdenziali e delle tasse, sulla diminuzione e soppressione degli aiuti sociali… Se l’attuazione delle riforme è stata graduale fin dagli anni ottanta, essa si è accentuata con la crisi del 2008, rendendo sempre più difficile la sopravvivenza per la maggior parte della popolazione e soprattutto per i lavoratori precari, «riserva» della forza-lavoro, e per i lavoratori in esubero, quelli di cui il capitale non ha più bisogno. Per quest’ultimi l’unica possibilità di trovare un’occupazione è entrare nel settore dell’economia informale, che comunque partecipa all’economia globale.

Questa situazione porta ad un maggiore controllo sociale dello Stato attraverso un rafforzamento della repressione: chiusura delle frontiere, politiche sociali che colpiscono i più poveri, condizioni tiranniche per l’ottenimento e il mantenimento del sussidio di disoccupazione e degli aiuti sociali, tagli del gas e dell’elettricità e sfratti in ogni stagione,  giovani «devianti» che riempiono le carceri sovraffollate e le prigioni psichiatriche. Tutto ciò costituisce ogni giorno di più la nostra realtà quotidiana. Ma le crescenti difficoltà finanziarie e la repressione sempre più onnipresente generano di continuo resistenze e rivolte da parte dei proletari che le subiscono.


[1]    Perché sostenuto da Henry Ford, padrone dell’industria automobilistica a cui ha dato il nome.

[2]    Di periferia.

[3]    Le pratiche di azione diretta sono nate dal sindacalismo rivoluzionario della fine del XIX° secolo, e sono state formalizzate dalla « Carta di Amiens »  del 1906, la quale assegnava al sindacalismo un duplice obiettivo: la difesa delle rivendicazioni immediate e quotidiane e la lotta per una trasformazione complessiva della società, in totale autonomia rispetto ai partiti politici e allo Stato. Questa carta resta tutt’oggi il punto di riferimento di una parte del movimento sindacale, anche se spesso in forma ben più attenuata.

[4]    Société nationale des chemins de fer français (Società nazionale delle ferrovie francesi)

[5]    Progetto di legge sulle pensioni e la previdenza sociale.

[6]    C.P.E (Contratto Primo Impiego).

[7]    Titolari di assegni sociali.

[8]    Un esempio: alla raffineria di petrolio di Grandpuits quando i sindacati hanno visto arrivare parecchie persone, venute per partecipare ai picchetti, le hanno obbligate a manifestare nella città vicina.

[9]    Blocchiamo l’economia.

Collettivo della Rivista Internazionale Sulla Crisi – Parigi

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Perché parlare di crisi?

Quello che vogliamo trattare qui è il discorso dominante, quello che spiega che le cause della crisi attuale vanno cercate nel cattivo capitalismo finanziario. Noi crediamo che la crisi finanziaria non sia altro che il sintomo di una malattia più profonda e che in realtà si tratti di una crisi del capitalismo stesso. Le conseguenze potranno essere terribili, ma sarà certamente anche l’occasione per rimettere in discussione il capitalismo a partire dalle sue stesse fondamenta.

Oggi, dall’estrema destra all’estrema sinistra, si sente ripetere un po’ ovunque lo stesso discorso: l’economia reale è sana; solo la finanza, sfuggita ad ogni controllo, starebbe mettendo in pericolo l’economia mondiale.

Secondo una versione ben più complottista la crisi non sarebbe altro che un pretesto, una strategia dei capitalisti, i quali (questi grandi bugiardi) sarebbero in perfetta salute, possessori di un tesoro ben nascosto da scovare per in seguito ridistribuire a tutti i poveri. È per questo che da sinistra a destra viene continuamente proposto di eliminare le nicchie fiscali e di scovare il denaro nascosto per re-iniettarlo nelle casse degli Stati.

Questo discorso viene declinato in diverse maniere a seconda che ci si riferisca ai traders come ai soli responsabili della crisi o che si denunci la parzialità delle agenzie di rating; che è un po’ come dare la colpa al termometro quando si ha la febbre. Ma soprattutto «è colpa della finanza e del debito». Tradotto: come confondere la malattia con il sintomo.

Separare il buon capitalismo produttivo dal cattivo capitalismo finanziario è impossibile. Non possono esistere da un lato un’economia che produce ricchezza e dall’altro un’economia virtuale, una finanza parassitaria; si tratta di due facce della stessa medaglia. Fin dai suoi inizi l’economia capitalista ha funzionato con la finanza, vale a dire con il credito, i mercati azionari, la speculazione.

I dirigenti di ogni colore ci prendono in giro quando reclamano la stretta supervisione della speculazione, perché è tutto il sistema che, nella sua fase attuale, ha bisogno della speculazione e del credito. Le cause più profonde della crisi odierna non bisogna cercarle né nella speculazione né nell’indebitamento. I recenti scivoloni finanziari (la crisi dei mutui, la crisi del debito, i ripetuti crac delle borse, il ruolo delle agenzie di rating, il rischio di fallimento di alcuni Stati) sono prima di tutto espressione di una crisi più profonda del capitalismo stesso.

Nei fatti esso si trova di fronte ad una contraddizione strutturale: da un lato è necessario diminuire (o almeno limitare) i salari per abbassare i costi di produzione e mantenere i profitti; dall’altro è necessario che i consumatori abbiano un reddito sufficiente per comprare le merci prodotte.

All’indomani della Seconda guerra mondiale nei paesi dell’Europa occidentale, dell’America del Nord ed in Giappone la rapida espansione dell’economia ha permesso di contenere e di respingere gli effetti negativi di questa contraddizione. Si aumentavano i salari ma si aumentava ancor di più la produzione. Si mercificavano numerosi settori che prima non lo erano, come oggi si fa con l’educazione, la sanità o la sicurezza. Si forniva a costi più bassi (grazie all’industrializzazione e alla massificazione) una marea di prodotti d’ogni tipo, permettendo al proletariato di vivere pur mantenendo alti i profitti.
Per sviluppare in questo modo la produzione bisognava che il consumo invadesse l’intera società, introducendo l’uso della pubblicità e producendo una lunga serie di porcherie destinate a soddisfare bisogni creati socialmente.

Inoltre ciò che allora veniva chiamato «Terzo Mondo» restava sotto la dominazione coloniale o post-coloniale, permettendo così di sfruttarne le materie prime.

Tutto questo è cambiato dopo la crisi degli anni settanta e la conseguente ristrutturazione economica. Le delocalizzazioni delle industrie e dei servizi hanno permesso di abbassare il costo del lavoro a livello mondiale. Il consumo è stato sostenuto dallo sviluppo del credito, sia che fosse spesa pubblica (e debito pubblico) sia che fosse privata. Ma questo sistema, come la crisi iniziata nel 2007 lo ha dimostrato, è ormai senza più respiro. La caduta del 2008 è stata attutita solo attraverso l’espansione massiva dell’indebitamento statale. L’ammontare di questo debito, ora impossibile da rimborsare, è l’espressione concreta di un impasse. La crisi del debito pubblico in Europa e la possibilità, sempre più concreta, del fallimento della Grecia, ne sono la prova: non è la finanza la causa della crisi, la finanza è al contrario ciò che ha permesso alla crisi (provocata dall’intrinseca contraddizione del capitalismo) di rivelarsi così tardi.

Essa colpisce attualmente gli Stati sotto forma di crisi di bilancio e genera i cosìddetti piani di austerità. In tutta Europa ci raccontano che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, che bisognerà lavorare di più e stringere la cinghia. Di fronte a questa situazione molti guardano allo Stato come a ciò che permetterebbe di porre un freno alle «incertezze del mercato».
«Con più Stato che controlli la finanza, potremo costruire un’economia più prospera e sociale». Ma il discorso antiliberale si scontra qui con una evidenza[1]: lo Stato non è ciò che si oppone alla sfera dell’economia, esso è in un rapporto di totale interdipendenza con l’economia. Il motivo è semplice: esso deve servirsi del denaro per finanziare i suoi progetti. Quando l’economia comincia a rallentare, essa limita e soffoca l’azione statale: se le risorse finanziarie dello Stato diminuiscono, la sua azione si riduce progressivamente alla gestione repressiva della povertà.

Concretamente oggi gli Stati possono scegliere fra due politiche: l’austerità draconiana o la creazione monetaria (vale a dire stampare della valuta). La prima scelta porta ad una grave recessione, la seconda all’esplosione incontrollabile dell’inflazione.

La disoccupazione è in aumento e la miseria come la barbarie possono diffondersi drammaticamente, magari intervallate da alcune fasi di rilancio.
E allora a che cosa servono queste considerazioni disilluse? A che cosa serve ripetere all’infinito che la crisi iniziata nel 2008 potrebbe aggravarsi? Perché gioirne quando siamo noi i primi a rischiare di subirne le conseguenze? E ciò sapendo che il capitalismo ha finora dimostrato di poter superare le sue crisi, e perfino di essere un sistema in stato di «crisi permanente»?

In realtà, non vi è alcuna contraddizione fondamentale nel dire che vi è un peggioramento della crisi negli ultimi anni e che il capitalismo è in qualche modo una crisi permanente: la crisi può essere analizzata sia come modo di funzionamento ordinario del capitalismo sia come una messa in discussione potenziale della sua stessa esistenza.
Il capitalismo è un gioco che include fra le sue regole la propria contraddizione, e che quindi può tendere alla sua stessa abolizione. Ma la realtà è che sta alla lotta di classe, sta a noi agire.

L’attuale crisi potrebbe effettivamente essere risolta con i mezzi già utilizzati storicamente in simili contesti: primo fra tutti la guerra, che permette la distruzione massiva dei mezzi di produzione e della forza-lavoro. Ma essa potrebbe anche durare a lungo attraverso un continuo processo di impoverimento per molti di noi, scossa da brevi esplosioni di rabbia sociale senza vie d’uscita o da conflitti di tutti contro tutti (concorrenza tra gruppi di diversa provenienza sociale, razzismo …).

Però possiamo anche immaginare che durante una grave crisi prolungata gli automatismi sociali e le abitudini possano indebolirsi e scomparire. Molte persone potrebbero rimettere in discussione ciò che prima consideravano naturale, inevitabile. Ed è per questo che le crisi sono potenzialmente dei momenti di messa in gioco del capitalismo.

Perché dunque questa analisi, che è all’incirca l’unica oggi confermata dall’attuale crisi, suscita così poco interesse? Perché oggi è così difficile ammettere che questo sistema è arrivato all’ultimo respiro?
Principalmente perché nessuno può davvero immaginare la fine del capitalismo. L’idea stessa suscita panico. Tutti pensano d’avere troppo poco denaro, ma ognuno si sente minacciato. Certo, il denaro…ma bisogna attaccare anche la merce, il lavoro, la proprietà, lo Stato.

La scomparsa di questa società rappresenta un tale sconvolgimento che non necessariamente la si può considerare con leggerezza. Ma noi non siamo condannati a cercar di salvare un’economia che barcolla e ci schiaccia. Possiamo contribuire alla sua scomparsa.
Non per niente, ma per un mondo senza Stato e senza classi, un mondo per tutte e tutti, senza sfruttamento e dominazione.

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[1] Gli antiliberali sognano di ritornare ad uno Stato che li protegga dal capitalismo, quando la funzione stessa dello Stato è d’assicurare il suo buon funzionamento. In condizioni di crisi la loro politica porta semplicemente a nuove forme di patriottismo economico, a delle misure più o meno protezionistiche per cercare d’impedire le delocalizzazioni, se non addirittura al nazionalismo.

Collettivo della Rivista Internazionale Sulla Crisi – Parigi

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Pourquoi parler de crise ?

Ce que nous voulons attaquer c’est le discours dominant qui explique que les causes de la crise actuelle sont à chercher dans le mauvais capitalisme financier. Nous pensons que la crise financière n’est qu’un symptôme d’une maladie plus profonde et qu’il s’agit en fait d’une crise du capitalisme lui-même. Ses conséquences seront certainement terribles mais ce sera peut-être aussi l’occasion de remettre en cause le capitalisme dans ses fondements mêmes.

De l’extrême droite à l’extrême gauche, on entend partout aujourd’hui un même discours: l’économie réelle serait saine, seule une finance ayant échappé à tout contrôle mettrait en danger l’économie mondiale.

Dans une version plus conspirationniste, la crise ne serait qu’un prétexte, une stratégie des capitalistes eux-mêmes qui seraient en réalité en parfaite santé. Car, en fait, ces gros menteurs ont un trésor bien caché qu’il faudrait trouver pour ensuite le redistribuer à tous les pauvres. C’est pourquoi de la gauche à la droite on propose de raboter les niches fiscales et de trouver l’argent caché pour le réinjecter dans les États.

Ce discours se décline de différentes manières selon qu’on désigne les traders comme seuls responsables ou qu’on dénonce la partialité des agences de notation, ce qui revient à accuser le thermomètre en cas de fièvre. Mais par-dessus tout, « c’est la faute à la finance et à l’endettement », ou comment confondre la maladie et le symptôme.

Or, il est impossible de séparer le bon capitalisme productif du mauvais capitalisme financier. Il n’existe pas d’un côté une économie qui produit des richesses et de l’autre une économie virtuelle, une finance parasitaire; il s’agit des deux faces d’une même réalité. Depuis le début de l’économie capitaliste, celle-ci ne peut fonctionner sans la finance, c’est-à-dire le crédit, les Bourses, la spéculation.

Les dirigeants de tous bords se foutent de nous quand ils réclament un encadrement rigoureux de la spéculation, car c’est tout le système qui, dans sa phase actuelle, a besoin de la spéculation et du crédit. Les causes les plus profondes de la crise actuelle ne sont à rechercher ni du côté de la spéculation, ni du côté de l’endettement. Les achoppements financiers récents : crise des subprimes, crise de la dette, krachs boursiers à répétition, rôle des agences de notation, menace de faillite des États…tout cela est avant tout l’expression d’une crise du capitalisme lui-même.

En effet, le capitalisme est confronté à une contradiction récurrente: d’un côté, il lui faut diminuer (ou en tout cas limiter) les salaires pour baisser les coûts de production et maintenir les profits. D’un autre, il faut que les consommateurs aient suffisamment de revenu pour acheter les marchandises produites.

Au lendemain de la Seconde guerre mondiale, dans les pays d’Europe occidentale, d’Amérique du Nord et au Japon, l’expansion rapide de l’économie permettait de contenir et repousser les effets négatifs de cette contradiction. On augmentait les salaires, mais on augmentait plus encore la production. On rendait marchands de nombreux secteurs qui ne l’étaient pas auparavant, comme aujourd’hui on est en train de le faire avec l’éducation, la santé ou la sécurité. On fournissait à coûts plus bas (par l’effet de l’industrialisation et de la massification) une foule de produits plus nombreux, et qui faisaient vivre les prolétaires tout en maintenant les bénéfices. Pour développer la production de cette manière, il fallait que la consommation envahisse la société entière, avec tout ce que cela signifie: publicité, manipulation du désir, production d’une foule de saloperies destinées à satisfaire des besoins socialement créés.

Par ailleurs, ce qui s’appelait alors le tiers-monde était maintenu sous une domination coloniale ou post-coloniale qui permettait d’en exploiter les matières premières.

Tout cela a changé depuis la crise des années 1970 et la restructuration du capitalisme qu’elle a provoquée. Les délocalisations d’industries et de services ont alors permis de baisser le coût du travail au niveau mondial. La consommation a été soutenue par le développement du crédit, qu’il s’agisse de dépense publique (et de dette publique) ou privée. Mais ce système est lui-même à bout de souffle, comme le montre la crise qui a commencé en 2007. Le krach de 2008 n’a pu être rattrapé qu’au moyen d’une expansion massive de l’endettement étatique. Le montant de cette dette, désormais impossible à rembourser, est l’expression concrète de cette impasse. La crise de la dette publique en Europe et les perspectives de défaut de la Grèce, désormais bien réelles, en sont la preuve. Ce n’est pas la finance qui est la cause de la crise, la finance est au contraire ce qui a permis à la crise provoquée par la contradiction récurrente du capitalisme d’éclater aussi tard.

Celle-ci frappe actuellement les États sous la forme d’une crise budgétaire et de divers programmes d’austérité. Partout en Europe, on nous explique que nous vivons au-dessus de nos moyens, qu’il va falloir travailler plus et se serrer la ceinture. Face à cette situation beaucoup se retournent vers l’État comme ce qui permettrait d’imposer des limites aux « dérèglements du marché ».

« Avec plus d’État pour encadrer la finance, nous pourrons construire une économie plus sociale et plus prospère.» Mais le discours antilibéral se heurte à une évidence[1] : l’État n’est pas ce qui s’oppose à la sphère de l’économie, il est dans un rapport de totale interdépendance avec l’économie. La raison en est simple: il doit se servir de l’argent pour financer ses projets. Lorsque l’économie commence à ralentir, elle limite et étouffe son action. Avec la diminution de ses moyens financiers, l’Etat se réduit à la gestion toujours plus répressive de la pauvreté.

Concrètement aujourd’hui les États n’ont le choix qu’entre deux politiques : austérité draconienne ou création monétaire, c’est-à-dire recours à la planche à billets. La première mène à la récession violente, la seconde à l’explosion d’une inflation incontrôlable.

Le chômage s’accroît et la misère comme la barbarie risquent de se répandre de manière dramatique, peut-être entrecoupées par quelques phases de relance. Alors à quoi servent ces considérations désabusées? A quoi sert de marteler que la crise qui a commencé en 2008 risque bien de s’approfondir? Pourquoi s’en réjouir alors que nous risquons d’en subir les conséquences et d’être les premiers touchés? Et ce d’autant plus que le capitalisme a montré jusqu’à présent qu’il pouvait surmonter ses crises. Voire même qu’il était un système en état de « crise permanente ».

En fait, il n’y a pas de contradiction fondamentale entre le fait de dire qu’il y a bien approfondissement de la crise ces dernières années et que le capitalisme est d’une certaine façon une crise permanente : la crise peut être analysée à la fois comme un mode de fonctionnement ordinaire du capitalisme et comme une remise en cause potentielle de sa propre existence. Le capitalisme est ce jeu qui inclut sa contradiction dans sa propre règle, et qui donc pourrait tendre à son abolition, mais la réalité c’est que c’est à la lutte des classes, c’est à nous de le faire.

La crise actuelle pourrait bien sûr être résolue par des moyens déjà utilisés historiquement par ce système dans des contextes comparables: guerre(s), destruction massive des moyens de production et de la force de travail. Elle pourrait aussi durer longtemps dans un processus continu d’appauvrissement pour la plupart d’entre nous, secoué par des explosions sans issue, voire des conflits de tous contre tous (concurrence entre groupes, racisme…).

Mais on peut aussi penser que, pendant une crise grave prolongée, les automatismes sociaux, les habitudes, s’affaiblissent et disparaissent. Beaucoup de personnes pourraient remettre en question ce qu’elles considéraient auparavant comme naturel, inévitable. Et c’est bien pour cela que les crises sont potentiellement des moments de remise en cause du capitalisme.

Alors pourquoi cette analyse, qui est à peu près la seule à se trouver confirmée aujourd’hui par la crise récente, suscite-t-elle si peu d’attention? Pourquoi est-il si difficile d’admettre aujourd’hui que notre système est à bout de souffle? Avant tout parce que personne ne peut vraiment imaginer la fin du capitalisme. L’idée même suscite une peur panique. Tout le monde pense qu’il a trop peu d’argent, mais chacun se sent menacé. Or, c’est bien l’argent mais aussi la marchandise, le travail, la propriété et l’État, qu’il faut attaquer.

La disparition de cette société représente un tel bouleversement qu’on ne l’envisage pas nécessairement avec légèreté. Mais nous ne sommes pas condamnés à tenter de sauver l’économie qui chancelle et nous écrase. Nous pouvons contribuer à sa disparition. Pas pour le néant, mais pour un monde sans État et sans classes, un monde pour toutes et tous, sans exploitation ni domination.

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[1] Les antilibéraux rêvent de retourner à un Etat qui les protègerait du capitalisme alors même que la fonction de l’État est d’assurer son bon fonctionnement. Dans ces conditions leur politique aboutit simplement à des formes nouvelles de patriotisme économique, des mesures plus ou moins protectionnistes pour essayer d’empêcher les délocalisations, voire carrément au nationalisme.

Collectif de la Revue Internationale Sur la Crise – Paris

 
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Merde in France

Aujourd’hui, la France n’est pas touchée par la crise de la même façon que d’autres pays européens comme la Grèce, l’Italie, l’Espagne, l’Irlande, le Portugal, etc. Cela ne veut pas dire qu’elle ne le sera pas mais, pour l’instant, les mesures d’austérité n’ont pas divisé les salaires par deux et les coupes budgétaires n’empêchent pas l’Etat de maintenir encore une certaine protection sociale (sécurité sociale, allocations familiales et de chômage, revenu minimum, aide au logement..) de la population.

Plusieurs pistes peuvent être avancées pour comprendre pourquoi la crise ne nous touche pas encore de plein fouet.

Rappelons tout d’abord que la France fait partie des dix premières puissances économiques mondiales.Qu’elle a été un des pays fondateurs de l’Union Européenne et de la zone Euro et qu’elle a largement bénéficié du Marché Commun Européen. Qu’elle fut également un empire colonial dont l’héritage lui profite encore aujourd’hui. En gros, elle a une place privilégiée sur l’échiquier économique mondial.

La France a profité de la croissance générale entre 1945 et 1973. Ses entreprises ont prospéré durant « les trente glorieuses » grâce à un prolétariat à la productivité optimale, formé et maintenu en bonne santé par un Etat-providence fort, avec un niveau de vie en hausse régulière.

Ajoutons que, à l’issue de la seconde guerre mondiale, de grandes entreprises publiques furent constituées (comme l’Agence France Presse) et d’autres entreprises (comme Renault) nationalisées, le tout venant s’additionner aux nationalisations de 1936 pour constituer un pool d’entreprises publiques conséquent et profitable.

Ce qu’on appelle le compromis fordiste[1] : augmenter les salaires en échange d’une meilleure productivité et augmenter ainsi la consommation (ou l’art de donner plus pour reprendre encore plus) a très bien fonctionné en France où les conventions collectives sont négociées au niveau national conjointement par les instances patronales et syndicales. Dans ces négociations, les syndicats ont toujours joué leur rôle de partenaires du patronat en co-gérant la force de travail et en encadrant les luttes.

Enfin, l’Etat français a de nombreux atouts pour soutenir ces fonctionnements : centralisé depuis le XVIème siècle, il s’est doté d’une administration forte et répartie sur tout le territoire et d’une police efficace disposant d’un savoir-faire et d’un matériel de pointe. Et tout cela en restant encore aujourd’hui un Etat social, un Etat-providence.

Néanmoins la France n’est pas le village d’Astérix et elle n’a pas échappé à la crise générale du capital et aux processus de restructuration qu’elle entraîne depuis les années 70. Des entreprises sont délocalisées, d’autres réduisent leurs effectifs ou ferment leurs portes, 9,5% de la population active (déclarée) est au chômage en fin 2011, le coût de la vie augmente bien plus vite que les salaires et les aides et revenus indirects provenant des avantages sociaux que l’Etat-providence avait mis en place se rétrécissent progressivement, mettant à mal le compromis fordiste.

Des entreprises publiques sont privatisées et les services publics gérés de plus en plus en tant que centres de profit.

Du coup, depuis les années 80, les luttes deviennent de plus en plus défensives : on ne se bat plus guère pour une augmentation de salaire mais pour conserver son travail, son niveau de vie, obtenir de meilleures conditions de licenciement.

Parallèlement à ces luttes de négociation (avec le patronat et/ou l’Etat), se développent de plus en plus des révoltes urbaines comme les émeutes dites « de banlieue » de 2005 qui ont éclaté un peu partout dans le pays avec des affrontements quotidiens avec la police, des attaques de commerces, des saccages et incendies de bâtiments publics.

Ainsi, le prolétariat lutte à différents niveaux et ce peut être aussi bien avec des revendications très défensives que sans revendication du tout en s’affrontant directement à la police et aux infrastructures de l’Etat, en pillant et détruisant les marchandises qu’il peut si difficilement s’offrir d’ordinaire.

Les luttes défensives les plus emblématiques sont celles qui précédent des fermetures d’usine comme, en 2000, celle des travailleurs de Cellatex. Ceux-ci avaient menacé de faire sauter leur usine et de déverser des milliers de litres d’acide sulfurique dans la rivière voisine pour obtenir une compensation spéciale à leur licenciement de plus de 22 000 euros et des garanties particulières de reconversion.

Le moyen de pression utilisé, qui sera repris dans plusieurs autres entreprises en liquidation au cours de la décennie qui suit, peut sembler avant toutspectaculaire. Mais, outre le fait que ce type de moyen d’action est en rapportavec la violence des attaques des capitalistes, il s’inscrit aussi dans la lignée du syndicalisme de conflit et des pratiques d’action directe [2].

Les syndicats, s’ils savent eux-mêmes très bien jouer de ces pratiques pour soutenir leurs propres objectifs, ne parviennent pas toujours à maîtriser les séquestrations de dirigeants, les occupations violentes et les destructions diverses causées à la marchandise et à l’outil de travail par une base « déchaînée », pratiques qui se sont multipliées ces dernières années en même temps que les fermetures de sites de travail. D’où de nombreux conflits des syndicats avec leur base.

Le moteur du mode de production capitaliste, c’est l’accroissement constant des profits.

Pour y parvenir en situation de crise, il faut diminuer encore plus le coût global du travail (augmentation de la productivité, création de zones franches, réduction de taxes et de charges sociales…) et, pour cela, rendre le travail de plus en plus flexible et précaire (horaires et durée des contrats au gré du patronat, travail par intérim ou en sous-traitance, externalisation forcée de travailleurs obligés de se mettre à leur compte…).

En conséquence, les gouvernements successifs ont pour mission de réformer le contrat de travail et de diminuer les dépenses liées à la reproduction de la force de travail (santé, enseignement, retraite et aides diverses).

Sur le contrat de travail, l’une des réformes les plus marquantes porte sur les conditions du départ en retraite. C’est cette réforme, commencée en 1993, qui provoque le mouvement de lutte de l’automne 2010. Depuis la fin mars, les syndicats avaient déjà organisé 7 journées d’action et de manifestations contre cette réforme. En octobre démarre une série de manifestations et de grèves reconductibles (en vrac : SNCF, routiers, raffineries de pétrole, éboueurs et agents municipaux, cantines scolaires, crèches et autobus à Marseille, lycées et universités…) qui vont durer jusque vers la fin novembre.

La contestation de la réforme se solde par un échec total et son application suivra inexorablement son cours. Pour la première fois, alors que de précédents projets de réforme du contrat de travail (comme par exemple : le « Plan Juppé » en 1995 ou le Contrat Première Embauche en 2006), avaient été amendés ou annulés sous la pression des luttes, l’Etat français n’a fait aucune concession, montrant ainsi que toute revendication était irrecevable.

Raté dans ses objectifs « politiques » visés par les syndicats (lesquels ont tout de même bien réussi à épuiser les luttes avec 14 journées d’action et de manifestations en 8 mois !), ce mouvement a globalement mis en évidence la faiblesse du niveau des luttes en regard de la violence d’une attaque aiguisée par la crise et d’un rapport de force nettement en faveur du capital.

Cependant, ce mouvement a aussi vu se développer des pratiques de luttes au-delà du refus de la réforme du système des retraites, sur la base de l’achat global de la force de travail qui comprend tous les coûts nécessaires non seulement à payer les travailleurs mais aussi à ce qui leur permet de rester productifs, de survivre et de faire survivre leur foyer. Il a de ce fait impliqué le prolétariat au sens large, au-delà de la seule classe ouvrière et des catégories d’âge et d’activités directement concernées par cette réforme.

La difficulté croissante de l’activité de grève – et encore plus celle d’une grève avec occupation- ( en cause, notamment: la perte de revenu insupportable pour beaucoup dans le contexte présent, la peur fréquente de perdre son emploi et de mettre en danger son entreprise dont celui-ci dépend, les restrictions du droit de grève dans certains secteurs, les statuts atomisés des travailleurs au sein d’une même entreprise…) et l’impossibilité de faire grèvepour une fraction non négligeable du prolétariat (chômeurs, intérimaires, précaires, assistés sociaux, travailleurs au noir, sans papiers…) ont favorisé le développement :

– des pratiques de blocage hors des lieux de travail proprement dits : on «bloque» les raffineries et les incinérateurs à leurs entrées (sans hélas les arrêter totalement ce qui impliquerait ensuite une longue remise en route que les syndicats ont veillé à éviter ! !) ; des travailleurs municipaux d’autres secteurs d’activité se retrouvent pour bloquer un incinérateur dont le personnel n’est pas lui-même déclaré gréviste ; les « bloqueurs » appellent des groupes ou des individus extérieurs à venir les rejoindre etc.. ce qui, potentiellement, permet de dissocier ou d’associer librement grève et blocage et ouvre les lieux de travail et les collectifs de lutte à tous, sachant que les syndicats même « inviteurs » ont bien veillé au grain tout de même ![3].

– des « AG Interprofessionnelles », instances anti et/ou para-syndicales qui intègrent travailleurs syndiqués ou non, chômeurs, précaires, retraités, étudiants, titulaires des minima sociaux etc …et tentent des coordinations directes globales et non plus sur la base d’une profession, d’un métier, d’un secteur, d’une entreprise. Malheureusement, ces AG ont souvent été investies par des groupes d’extrême gauche, leur donnant un sens organisationnel et avant-gardiste.

Viennent se rajouter aux deux phénomènes précédents :

– le fait que ce mouvement est entré en synergie avec une série de conflits antérieurs et/ou parallèles portant sur des revendications salariales et de conditions de travail notamment dans les raffineries de pétrole et différentes entreprises publiques ou para-publiques (les hôpitaux parisiens, le musée du Louvre, les archives nationales, les éboueurs, les travailleurs du port de Marseille…).

– la forte mobilisation des lycéens, pourtant pas encore intégrés au monde du travail mais réagissant en futurs exploités, au besoin avec violence (cf. les saccages au centre-ville de Lyon et au tribunal de commerce de Nanterre)

Dans ce contexte, on comprend bien pourquoi a surgi le slogan Bloquons l’économie. Même si ce slogan n’est pas plus « révolutionnaire » (il ne s’agit pas de « détruire l’économie ») qu’il ne s’est révélé efficace (le moins qu’on puisse dire c’est que l’économie française n’a été que très modérément « bloquée » !!!), il présente l’intérêt de sortir de la sphère des revendications partielles pour s’en prendre directement à l’économie.

Du côté du coût de la reproduction de la force de travail, les réformes portent sur la baisse des dépenses de santé et d’éducation et, plus généralement, la rentabilisation des services publics, la hausse des cotisations sociales et des taxes, des réductions et suppressions de minimas sociaux… Si la mise en place des réformes a été progressive depuis les années 80, elle s’accentue depuis la crise de 2008, rendant la survie de plus en plus difficile à la majorité de la population, et encore plus aux travailleurs précaires, « réservistes » de la force de travail, et aux travailleurs surnuméraires, ceux dont le capital n’a plus l’usage. Pour ces derniers, la seule chance à s’employer est le secteur de l’économie informelle, lequel appartient tout de même en réalité à l’économie globale.

Cette situation implique un contrôle social accru de l’Etat par un renforcement de la répression : fermeture des frontières, chasse aux sans-papiers, conditions tyranniques d’obtention ou de maintien des allocations de chômage et des minima sociaux, coupures de gaz et d’électricité et expulsions locatives en toutes saisons, enfermement des jeunes déviants… deviennent notre paysage quotidien et suscitent régulièrement des résistances et révoltes de prolétaires subissant l’accroissement de leurs difficultés financières et une répression de plus en plus omniprésente.

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[1] Parce qu’il avait été soutenu par Henry Ford, patron des automobiles du même nom
[2] L’origine des pratiques d’action directe remonte au syndicalisme révolutionnaire de la fin du XIXème siècle, mis en forme par la « Charte d’Amiens » de 1906 assignant au syndicalisme un double objectif : la défense des revendications immédiates et quotidiennes et la lutte pour une transformation d’ensemble de la société en toute indépendance des partis politiques et de l’Etat. Cette charte reste aujourd’hui encore la référence d’une partie du mouvement syndical même si c’est souvent sous une forme bien édulcorée
[3] Un exemple : à la raffinerie de pétrole de Grandpuits, quand les syndicats ont vu arriver un nombre important de gens venus participer au blocage de la raffinerie, ils les ont envoyés manifester dans la villed’à côté !
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Collectif de la Revue Internationale Sur la Crise – Paris

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« Est-ce la crise de la finance, de la dette ou du capitalisme ? »

Dans le cadre du FRAP 2012

http://www.demosphere.eu/node/30038

(50 rue Stendhal, Paris 20ème. M°Gambetta)

  • 10 h : Promenade pédagogique dans les hauts lieux de la finance (antenne du FMI, agences de notation). Rendez-vous au M° Iéna.
  • 13 h :Vraie auberge espagnole
  • 14 h :Débat sur la financiarisation du capitalisme et ses prises d’otages et les moyens d’y résister avec Ivan du Roy (Orange stressé) sous réserve, Thomas Coutrot des Économistes atterrés (sous réserve), le CADTM et le collectif 19econtre la dette.
  • 16 h 30: pièce de théatre « Du gravier dans l’engrenage »
  • 17 h30 :Rencontre avec le collectif RISC (http://crise.noblogs.org) dont les textes affirment le caractère structurel de la crise actuelle du capitalisme.
  • 19 h30 :concert des Bécasses + bouffe prix libre
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Le collectif de la Revue Internationale Sur la Crise s’élargit !

A l’hiver 2010 nous nous sommes réunis à quelques uns pour réfléchir à notre capacité à lutter, ou penser, écrire, s’organiser collectivement ; aussi pour tenter de définir des objets de réflexion, des objectifs de lutte… La tâche n’était pas aisée. Rapidement, la volonté et la nécessité de rendre nos réflexions publiques nous avaient conduit à rédiger un appel à réunion (réunion du 2 mars 2011 au CICP « Nous proposons de créer un collectif ouvert à tous ceux qui se reconnaîtront dans cette démarche »). Nous pensions et nous pensons toujours que nous avons besoin de débats publiques et larges pour confronter des analyses, discuter de nos possibilités, de nos limites, etc… De cette réunion et de celles qui ont suivi a émergé en autres la proposition d’élaborer une revue internationale sur la crise. Si aujourd’hui nous ne sommes plus que quelques uns, nous continuons nos réflexions et travaillons à cette revue, dont la proposition a croisé les envies similaires d’autres camarades en France. Ce projet en cours d’élaboration réunis déjà plusieurs groupes en Grèce, et en Espagne notamment. Des textes français et étrangers sont en cours d’écriture. Le groupe de Paris propose quant à lui d’écrire plusieurs textes. Un texte sur « Pourquoi parler de crise ? » est en préparation. Le contenu d’un second texte sur la situation française est encore à débattre collectivement. Nous souhaitons donc ici rappeler que notre réflexion et notre action se veulent toujours collectifs et ouverts. Dans cette volonté d’élargissement nous publions ici le texte d’appel à la revue, que nous avons communiqué aux autres groupes et/ou villes.

PROPOSITION REVUE

Pour plus de précisions : risc.idf@gmail.com

Collectif de la Revue Internationale Sur la Crise – Paris

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